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riflessi azzurri

VI > Premessa quinta: Rinascita. b) Raccolte meditate

Ma adesso, anche per chiarire meglio il senso di alcuni passaggi, è bene dire qualcos’altro sulla mia “persona” – con questa parola riferendomi principalmente alla parte più sacramente velata dell’essere che a quella più superficiale e socialmente “compromessa”.

Sulla linea convenzionalmente misurabile del tempo sono arrivato a contare, al momento attuale, ben 48 anni (malgrado possa anche dire di avere non più di qualche respiro di vita alle spalle contemporaneamente a un’esistenza già svolta come da millenni!). 

Ho normalmente favorito una disposizione a ricercare e comprendere il valore degli ostacoli, spesso anche creandone, mentre ho continuato sempre a benedire quelle difficoltà che, anche spontaneamente irrompendo nel cammino, già da sé si fanno avanti. E ho solitamente consentito al dubbio di accedere alle mie fortezze, come lo sconquassante infrangersi d’acqua salata in onde contro miei dolci e sabbiosi argini rocciosamente sognanti. Non più elencabili sono le volte in cui ho messo tutto in discussione, ogni volta ritrovandomi costretto a crescere. 

Ho frenato quei mille desideri, in mille occasioni, di esserci anch’io, qua o là mostrandomi, “alzando il ditino” per dire la mia. E per questo, devo ammettere, non sono mai stato potenzialmente a corto di materiale, né di occasioni. Tutt’altro! Ho cercato di restare sempre in apertura, con il cuore, il corpo e la mente, per la crescita dello spirito. Pur di non abbandonare alcuna delle molteplici “fiamme pulsanti” incontrate tra i frangenti, è da tempi colorati di fanciullezza che mi aggiro, come una disperata zattera di salvataggio, accogliendo in me più di quanto ritenessi possibile. E come non nutrire poi ciascuno di quei frutti amati gioiosamente accettati in dono? E come non continuare ad accudire quelli che intanto hai raccolto? Ed intanto bisogna tener pur sempre saldo e ben orientato il fragile e provato timone. Ho ricevuto la fortuna, sin da quando ne abbia memoria, di poter creativamente raccogliere così tanto, e in modo talmente intenso, da dovere cedere a volte alla dolorosa necessità di impormi veri e propri lunghi “blocchi creativi”, come non potendo ulteriormente accogliere altre stelle altrimenti in approdo nel grembo di un universo luminosamente saturo.

E ho sempre avuto come la netta sensazione che “la mia” da dire non fosse o, comunque, non dovesse poi essere soltanto e semplicemente “la mia”. Contrariamente a quanto qualche volta possa apparire, non sono mai stato affascinato dalla “riduzione a se stessi”. E, del resto, cosa in fondo saremmo se non fossimo anche la potenziale espressione del nostro comune universo? Tuttavia, nel parallelo fortissimo dubbio di non poter rappresentare altri che me stesso – o del tutto, o prevalentemente, o anche parzialmente –, malgrado quella tanta luce raccolta, allora ho preferito trattenermi in disparte, possibilmente in silenzio. Siamo in fondo indispensabili? Ma quando vedo tutto questo buio intorno (non di certo la proiezione all’esterno di una mia qualche mancanza luminosa!), allora sento che un po’ è stato anche un peccato. Ma così è andata, e ho scelto di apparire non più dello stretto necessario. Mi sono tenenuto fervidamente impegnato al lavoro tra costruzioni, meditazioni critiche e ricostruzioni; drasticamente costretto a ridurre anche le tregue notturne e, non poche volte, giungendo anche a forzare il normale svolgimento di basilari funzioni fisiologiche pur di non interrompere l’incalcolabile lavoro per il compimento formale di un qualche “flusso essenziale” in corso. Raggiungere importanti risultati di crescita impersonale facendo carriera nella propria invisibilità sociale, in un mondo dominato dall’apparenza sociale attraverso maschere personali, comprendo come abbia sempre meno valore. Ma senza un adeguato riconoscimento di una sacralità armonica del nostro essere, che dall’intimo possa abbracciare e render sacra anche la stessa superficie, non credo potremo aspirare alla costruzione di una comunità realmente tesa al vero bene.

Quando, in questi momenti di apparente distanza, mi è successo di entrare in una qualche relazione col mondo esterno, allora ho sentito come principale il sentimento di dovere e potere recepire sempre e ancora una nuova lezione. Così è avvenuto quando sono stato chiamato a doverne impartire qualcuna, cercando sempre il massimo impegno, quasi a dispetto dei miei tanti limiti). E così anche è stato tutte quelle volte in cui ho sbagliato, e quando ho voluto sbagliare; quando ho voluto esagerare, spingendomi oltre, per provocare ed osservare, ed osservarmi, cercando di meglio comprendere il significato di un errore, il senso di una colpa, di un “peccato”, come di una debolezza, o di una stupida e pericolosa dipendenza. 

Insomma, posso dire di essere finora rimasto nel prevalente stato intenso di una “incubazione costruttiva”. Qualche volta invece mi sono esposto, ed anche tanto! È successo soprattutto nella prima metà del mio arco di vita, quando ho sentito la spinta di alcune estreme oscillazioni e tensioni naturali che, in una misura non sempre pienamente governata, ho dovuto lasciar scorrere. E sono anche stato sollecitato da dubbi e curiosità diversamente scandaglianti e, non di rado, oltre un normale limite. Eppure, anche in quei momenti, ho cercato di non smarrire  mai il valore intrinsecamente costruttivo di certe sperimentazioni formali.

In questa chiave essenzialmente rivelante, è stato giusto ed importante che sia accaduto tutto ciò che infine di fatto ho vissuto, anche quando in un tempo avvertito come non ancora sufficientemente maturo e, in ogni modo, nel fermo valore sempre di quelle ferite che si sono ulteriormente aggiunte al mio naturale corredo. 

Uno dei miei più grandi amori, da qui ormai andato, mi ha trasmesso il naturale flusso del “ritmo” attraverso il suono della parola. Sin da piccolo restavo in silenzio, religiosamente in ascolto, mentre la sentivo in cucina decantare i versi in latino del suo poeta preferito, Virgilio. Anni dopo, tra i tanti insegnamenti, mi disse come inevitabilmente resti triste colui che voglia imparare a tutti i costi dai propri errori, senza far tesoro delle esperienze altrui, né di quelle che possiamo prevedere attraverso il dono della mente. Per apprendere e maturare non si deve per forza consumare il tesoro inestimabile del nostro fragile corpo. 

Dovremmo sempre proteggere e custodire il tempio del nostro corpo, senza perciò blindarlo, ma aprendolo alla bellezza della vita, giustamente consumandolo con amore e rispetto. In questo fuoco armonico, che meravigliosamente consuma, svanisce ogni peccato.

Ci sono stati momenti in cui, esteriormente esponendomi, ho voluto e potuto ogni volta imparare, e altri in cui, interiormente esponendomi, ho ripreso a meditare. E sono allora ritornato a sottopormi all’autocritica più assidua e implacabile, fin quasi a incenerire ogni amata e sudata costruzione, annientando ogni fretta, all’infinito diradando il tempo. Ho perdurato nel riporre tutto in questione, ma senza mai dimenticare. E da lì, riedificando, ho potuto riprendere. Ma ancora per ridemolire e nuovamente costruire. Sono riapprodato a forme espressive tra le più semplici, ma anche ad altre adeguatamente più complesse; e mi sono impegnato, sia per le une che per le altre, affinché vi risuonasse, in maniera più intensa possibile, quella “condizione essenziale” assiduamente perseguita. 

Cara sorella e caro fratello, e caro me – adesso e ancora qui, in paziente e fiducioso ascolto –, tutto questo anche per dirti che soltanto con la capacità ed il coraggio di ritagliarsi almeno un infinito momento di sospensione, dileguandosi, fin quasi a scomparire; e che soltanto imparando anche a rinunciare alla false ed effimere soddisfazioni e certezze del nostro tanto bramato apparire e vivere, diviene allora possibile rivolgersi al nostro essere, sentirlo ed amarlo davvero, così avviando un processo di effettiva maturazione. 

Quel che spesso manca è la capacità di rallentare e fermarsi per costruire dal profondo. Quando riusciamo a riservarci questi fondamentali momenti, allora ci si può anche, e giustamente, dedicare alle “manifestazioni esterne” del nostro essere. Connettendo il corpo alle vibrazioni dello spirito ci rendiamo testimoni del divino che tutto dal fondo movimenta. Attraverso la moderazione delle pericolose frette e recuperando il valore dell’apparenza quale importante possibilità espressiva di un essere vitalmente riacceso, ci è data la grande opportunità di lasciare qualcosa di veramente bello e vero al nostro prossimo, al nostro mondo e, senza dubbio, a noi stessi.

(aulicino)