XLI > Il Male Armonico – 23
Inviato dai celesti respiri agli smarriti figli amati, il temuto e mostruoso avverso – pur sempre armonicamente benedetto –, ora in evidenza, ora sotterraneo, ineludibilmente segue al nostro triste e incosciente richiamo.
Troppo affaccendati nel favorire un incessante potenziamento materiale, senza più amore, forsennatamente abbiamo seminato. E così abbiamo perseverato fino a ritrovarci costretti ad assistere al tragico fallimento di modelli di uno sviluppo efferato, irresponsabilmente adottati e sempre più divergenti da profondi desideri e formazioni umanistiche e realmente comunitarie.
Nel pieno accoglimento di una visione armonica, abbiamo l’opportunità di vivere l’istinto di procedere dall’essenziale rifioritura di un senso naturale di comunità umana che fortemente sentiamo di voler ricostituire e temprare.
Siamo stati massicciamente attratti da valori quantitativi, da leggerezze superficiali, e dalle velocità, con la possibilità di maggiori scambi e generali arricchimenti. Anche questi aspetti possono contribuire alla realizzazione di un bene comune, soprattutto considerando l’ampio nostro cammino di crescita, ma sempre a condizione che non si travalichi una regolata misura. Così però non è stato. Presto rapiti da una folle frenesia, immersi tra i sentori diffusi di un grande potere, sborniati tra avidità, presunzioni, invidie e indifferenze, abbiamo sempre meno lavorato per costruire un mondo sano e giusto, tralignando infine dalla nostra vera felicità. E abbiamo perso il buon senso previdente dell’investire per la tutela di quei diritti già largamente riconosciuti come fondamentali e universali – se non per fondare la verità dei singoli individui in sé, quanto meno per fondarne la verità nel fondamentale ordine relazionale di nostre necessarie comunità.
Tanti anni sono ormai passati. Immense le potenzialità del progresso ottenuto. Eppure non siamo ancora riusciti ad assicurare la disponibilità di un semplice riparo per ciascun essere vivente sulla terra; né un luogo dove potere assicurare lo svolgimento delle nostre individualità, con la possibilità comunque garantita di una libera e costruttiva condivisione. Ma non siamo neppure riusciti ad assicurare quei beni minimi necessari per la sopravvivenza. Non siamo riusciti a costruire comunità davvero ispirate alla piena accoglienza e tutela. Non abbiamo ancora imparato dagli orrori delle guerre, dalla pericolosità di vertiginose rivoluzioni non umanamente ancorate, dalle già gravi conseguenze ambientali delle nostre smanie consumistiche. E perfettamente sappiamo delle tante e ripetute violazioni alle quali siamo sottoposti; e per quali assurde mancanze, ancora oggi, si possa anche morire.
Dobbiamo profondamente vergognarci.
Dovremmo poter disporre tutti dell’essenziale per vivere in pace nel rispetto della terra. Anche per questo non dovremmo mai ridurci a dipendere totalmente da instaurati sistemi sociali, con il fisiologico rischio delle loro critiche altalenanze.
Ci si ritrova in una data famiglia, come anche nella particolare comunità dove si nasce. E poi, anche per la nostra facoltà di esseri animati, possiamo scegliere dove e come vivere. Siamo liberi di muoverci. Così, per natura, ci è potenzialmente dato di formare nuovi nuclei corrispondenti alla maturazione delle nostre specifiche personalità. Tuttavia, con riguardo alla fondamentale “dimensione sociale”, ci ritroviamo invece senza la possibilità di stabilire uno spazio minimo che sia davvero nostro e inviolabile; senza la libertà di potere organizzare la produzione e la gestione almeno delle risorse strettamente vitali. È cruciale avere la possibilità di muoversi per realizzare una reale indipendenza, quanto meno per ciò che è concretamente essenziale. Questo è un obiettivo irrinunciabile, e vale sia per i singoli che per le comunità, dai piccoli gruppi, a interi paesi e unioni di nazionalità.
Gli imprevisti, in un qualche modo, restano pur sempre prevedibili. La loro eventuale drammaticità può essere affrontata con maggiore forza ed efficacia da gruppi ristretti che abbiano ottenuto una sufficiente indipendenza per la disponibilità dei beni essenziali e che, conseguentemente, siano anche più autonomi. Si può essere indipendenti restando all’interno di strutture unitarie più grandi e comprensive, così anche riconoscendo e rispettando sistemi democraticamente già avviati. Al sopraggiungere di un qualsiasi “male”, viene allora considerevolmente ridotto il rischio di generali e profondi collassi. Nella trappola di una sistematica dipendenza, ci si ritrova invece impreparati e gravemente esposti. E ciò accade proprio a causa delle tante negligenze, delle incapacità o delle semplici inadeguatezze strutturali di quegli stessi organismi sociali che poi, nei momenti più difficili, implacabilmente si scoprono tragicamente costretti in ginocchio.
Venduti alle esasperate comodità di un meccanismo industriale globalizzato, abbiamo rapidamente sottovalutato la fondamentale disponibilità di risorse di base e la promozione di un rapporto più diretto con la terra. Malgrado la generale e generica affermazione di un giusto diritto di proprietà – ma che armonicamente resterebbe ancora da rivedere –, sotto il vincolo ancora di assurde imposizioni statali, malgrado le apparenti concessioni e i riconoscimenti di basilari diritti, siamo stati di fatto privati della nostra terra, finendo col dipendere quasi del tutto per l’ottenimento delle sue primarie risorse.
Ogni cellula, più o meno estesa e aggregata, operando in modo autonomamente integrato, può fruttuosamente ripartire da un’autoproduzione che assicuri quella disponibilità minima di energie per far fronte anche al sopraggiungere di particolari eventi critici. Questi, per loro natura, tendono a colpire più duramente proprio quegli organismi che si siano edificati sulla debolezza intrinseca della parte numericamente maggiore della loro molteplicità costituente. Similmente i nostri apparati sociali si sono avventurati e, prevalentemente affidandosi a modelli economici globali e centralizzati, hanno favorito la forza eccessiva e incontrollata di ridotte minoranze.
Un ritorno armonico alle “comunità naturali” accende l’assoluta novità del più antico modello vitale esistente, l’unico davvero sostenibile e promotore di una minima autosufficienza e indipendenza per un processo di realizzazione individuale in una giusta e piena immersione comunitaria. Ciò comporta il metter sempre più al centro la natura nelle costituzioni comunitarie che verranno; ma anche, e soprattutto, significa far rinascere la natura già presente nelle nostre attuali città, universalizzare un rapporto rinnovato con la madre terra e, quindi, procedere alla realizzazione della nostra indipendenza armonica essenziale.
Mentre si istituisce la fondamentalità della nostra “individualità sociale”, nel comunitario ritorno armonico naturale possiamo raccogliere la via concreta per una vita libera; una vita forte e giusta, fiorente di buona bellezza.
Ma è anche questa la rivoluzionaria occasione per una contemperata contaminazione di semplicità e progresso, di benessere spirituale e materiale.
È questa anche la via per guarire il nostro pianeta e per vivere tutti, da soli e profondamente insieme, in modo più sano e felice.
(aulicino)